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Miti isolani

Ezio Barbieri durante il processo

Fin dagli inizi del secolo l’Isola è stato un quartiere malfamato, rifugio della rinomata e temuta mala milanese, che bazzicava il Bar Girardengo o il Bar dell’Aquila. “Giocavano a carte, confabulavano, ridevano fra loro, con risate anch’esse furtive, non alzavano mai la voce, mai un litigio. Portavano nomi di battaglia pomposi: Il Generale, Il Pascià, Il Profeta… Alcuni erano tornati da anni trascorsi in America. Nessuno li definiva delinquenti. Se ne guardavano bene, all’Isola. Li chiamavano “banditi”. Emuli nostrani dei gangster d’oltreoceano, gli si riconosceva la maestria spietata con cui avevano creato una società fuorilegge che faceva paura per il solo obbedire a regole proprie. (…) Delinquenti, come si vociferava con ripugnanza, erano ben altri individui, che con la malavita non avevano niente da spartire. Esseri che non si esibivano, pressoché invisibili, i cui atti criminali venivano compiuti nell’occulto”.

Una delinquenza che nasceva spesso dalla miseria, dalle speranze, le delusioni, i dubbi, gli strascichi di odio, la frenesia che animavano la metropoli lombarda negli anni immediatamente a ridosso della guerra, quando le macerie non erano state ancora del tutto sgomberate e le mense dei poveri distribuivano pasti caldi a tanta gente allo sbando, ma già le strade cominciavano ad essere percorse dalle prime belle auto dei nuovi ricchi, mentre all’ orizzonte si intravedeva il luccichio dei danèe del boom economico in avvicinamento. “Mi sono chiesto anch’io tante volte perché sono diventato bandito – ricordava nel 1971 dopo aver scontato 25 anni Ezio Barbieri, star del banditismo milanese del dopoguerra – e ho pensato che l’unica ragione è stata la Milano di ventisei anni fa… sono diventato un bandito perché vedevo tutte le mattine mia madre alzarsi alle quattro e fare la coda per ore per avere mezzo chilo di pane. A volte si arrivava ai saccheggi dei negozi scoprendo le scorte alimentari erano esaurite. Milano era distrutta dalla guerra, interi quartieri erano rasi al suolo… c’era una metà della città che viveva sull’altra metà, una prendeva all’altra e l’altra subiva”.

L’Isola fu la base di quell’Ezio Barbieri che insieme al compare Sandro Bezzi con la sua Lancia Aprilia nera si prese beffa quasi un anno della polizia, che sfuggì sette volte alle manette, che riuscì a organizzare la più grande rivolta nella storia delle carceri italiane nell’ aprile del 1946. Barbieri abitava  al 14 di via Borsieri. La casa aveva due entrate e lui spesso entrava da una parte e usciva dall’altra che dava su via Confalonieri. La base ce l’aveva al bar di sua sorella, all’angolo tra via Porro Lambertenghi  e via Pollaiolo, dove oggi c’è il Ristorante… . Tra l’aprile 1945 e il febbraio 1946 fu il terrore di Milano, il pericolo pubblico numero uno, al cui mito contribuirono spettacolari inseguimenti d’auto e rocambolesche fughe per i tetti delle ravvicinate case del quartiere. “Io ricordo quando hanno sparato a Barbieri: lui veniva di volata da via Sebenico con la macchina, ha attraversato la piazza Minniti inseguito dalla polizia che gli ha sparato sull’angolo di via Porro Lambertenghi. Barbieri riuscì a scappare lasciando macchie di sangue sul selciato. La gente che lo vedeva fuggire gli batteva le mani”.

Barbieri raccolse attorno a sé una coorte di pregiudicati, ex repubblichini ed ex partigiani, disertori della polizia ausiliaria, una banda di sbandati detti in dialetto meneghino baloss, ligera, balabiott. Troppi scrupoli Ezio Barbieri non ne aveva, anche se si fece sempre vanto di non aver mai ammazzato nessuno, ma seppe dare all’attività banditesca un marchio molto personale. Le strade di Milano non furono mai tanto insicure come nel periodo in cui imperversò la banda Barbieri – Bezzi. Le rapine erano continue, anche in pieno giorno, anche in centro. L’Aprilia nera arrivava, in pochi minuti poteva essere svuotata la cassa di un negozio, di una banca, si facevano razzie negli stabilimenti e nei depositi alimentari della Borsa Nera, poteva essere strappata la borsa di un portavalori. “Lui andava nel Centro, li “pelava” senza usare un’arma e poi tornava qui per dividere. Si trovavano al bar in via Borsieri al 24, e lui distribuiva il malloppo, tra i suoi ragazzi e tra quelli che ne avevano bisogno”, raccontano i vecchi abitanti dell’Isola. Non c’erano dubbi sull’identità dei rapinatori perché Barbieri non si copriva mai il volto, il suo pizzetto alla moschettiera era diventato, diremmo oggi, il suo logo commerciale. Ezio Barbieri ci teneva a far sapere la sua attività, se ne faceva motivo di vanto. “Il Barbieri faceva del bene alla povera gente – questo diceva la voce popolare – Se è stato un bandito è un altro discorso, ma lui dava i soldi a chi ne aveva bisogno. Tutti lo salutavano quando passava per il quartiere”.

Il mito si conclude il 26 febbraio, con la morte di Sandro Bezzi e l’arrresto di Ezio Barbieri. Barbieri è uscito da carcere nel 1971, dopo 25 anni di reclusione, e ha trovato rifugio in Spagna dove ha troscorso il resto della sua vita in tranquillità e nell’anonimato. Sulla sua vicenda ha scritto un bel libro Alberto Bevilacqua, “La Pasqua rossa”,da cui è stata tratta la citazione iniziale si questo post.

 

Altre fonti:

Paolo Deotto: http://www.storiain.net/arret/num71/artic4.asp

http://archiviostorico.corriere.it/2003/novembre/11/Pasqua_sangue_che_sconvolse_Milano_co_0_031111080.shtml